Silvia Formentin è una psicoterapeuta che lavora da anni nell’ambito delle problematiche di dipendenza in un servizio pubblico. Cresciuta in un piccolo paese di provincia, fin dai primi anni di lavoro ha approfondito l’importanza di mantenere un approccio relazionale alla cura, che valorizza i contesti sociali di appartenenza, le relazioni famigliari e sociali, mettendo al primo posto, anche nella vita personale un interesse alla socialità.
Silvia, la vita di noi battezzati è una missione. Cos’è per te la missione?
Essere in missione o essere una missione? Non è facile comprendere come le cose non sempre dipendono dalle nostre scelte, dai nostri obiettivi di vita, dal nostro impegno o, banalmente dai nostri buoni propositi di inizio anno. Siamo abituati a pensare che tutto dipende da noi, dal nostro impegno, forza di volontà, saggezza, fino a sforare nell’illusione di poter anticipare e controllare gli eventi, ed evitare la sofferenza. Tanto più difficile è l’obiettivo che ci poniamo, tanto più ci sentiamo “in missione”! Il mio lavoro di psicoterapeuta mi porta spesso a cercare un difficile bilanciamento tra l’essere un promotore attivo di un cambiamento e l’accettare il cambiamento. In questa ricerca di equilibrio tra le parti sembra, secondo me, entrare in gioco la differenza tra l’essere in missione e l’essere missione! La prima porta l’idea di un “EGO” che avanza, che si impone sugli istinti, sulle cose esterne, incide sugli eventi, determina il corso della propria vita. La seconda invece interroga la propria capacità di ascolto e di accettazione di quello che si diventa nel corso delle fasi di vita, degli eventi, della giornata, del momento presente che si sta vivendo. “Essere Missione” significa essere capaci di vedere oltre la razionalità dei propri pensieri, obiettivi, oltre il giusto sapere che è stato istituzionalizzato dentro di noi, per lasciare spazio all’ascolto vero e profondo di quella voce interiore che ha sempre una direzione nuova da indicarci, in ogni momento della nostra vita, per il semplice fatto che siamo in continua interazione con l’esterno e continuamente in cambiamento. Essere missione secondo me significa essere in contatto con sé stessi anche a costo di apparire all’altro, in certe circostanze, irriverente o rivoluzionario nei confronti della staticità delle cose, e delle aspettative altrui.
Cosa puoi dirci o cosa ti piace di più della tua vita intesa come una vita missionaria?
“Essere missione” nella mia quotidianità non si vede nelle cose che faccio, i compiti che svolgo, o i difficili obiettivi che cerco di raggiungere, ma si svela nel silenzio di un atteggiamento interiore di curiosità e apertura verso la vita che scorre fuori e dentro di noi e che a volte ci mette nella condizione di sfida di fronte ad un cambiamento che sentiamo dentro di noi come una spinta che ci può mettere in conflitto con la razionalità, l’esperienza passata, le aspettative degli altri, i nostri ruoli, le nostre istituzioni interiorizzate. Spesso dico a me stessa “se voglio fare il mio lavoro devo imparare a rimanere scomoda sulla mia sedia”, restare scomoda mi aiuta a tenermi un po’ quel tormento che diventa energia da incanalare verso una nuova forma di conoscenza dell’esperienza di sé che si sta facendo.
Pensi inoltre che sia indispensabile, per prendere contatto con il nostro “Essere in Missione”, la disponibilità a perdere le nostre certezze. Spogliarsi di quanto è diventato superfluo, di abitudini consolidate e rassicuranti, di pensieri saturi di logica e razionalità, delle nostre aspettative verso noi stessi e verso gli altri per dare spazio all’ascolto di una voce più profonda e autentica e che in quel momento sentiamo farsi avanti, come quando abbiamo una intuizione, una idea nuova, una combinazione di sensazioni che percepiamo essere più autentiche e che non hanno bisogno di trovare una dimora in una ideologia o insegnamento, ma che sono semplicemente l’espressione della nostra creatività che nasce dall’incontro tra la nostra interiorità, il nostro modo di vivere le cose e il mondo esterno che si vive nell’incontro con l’interiorità altrui. L’essere missione, quindi, significa anche cercare il contatto con l’interiorità altrui che non sempre è di accesso immediato e che ha bisogno di essere coltivata nell’ascolto attivo.
Che messaggio vorresti trasmettere ai nostri lettori?
In questo momento sento di ringraziare chi mi ha affidato questo tema di riflessione, che mi ha portata oggi lontana dalle certezze e dalle frenesie di tutti i giorni, in un ambiente dove ho trovato una stanza silenziosa per meditare e dove ho potuto salutare delle persone che stanno in questo luogo di cura, alla ricerca di un ascolto nuovo nei confronti di sé stessi, anche a costo di prendere contatto con una lontana e profonda sofferenza da depositare in questo luogo per ritrovare un po’ di serenità e continuare la propria missione del vivere.
A cura di Flavio Facchin omi