Laura Silvestrini è insegnante di Lettere presso una scuola secondaria di primo grado della provincia di Treviso. Ha sempre partecipato ad esperienze di volontariato e nei gruppi parrocchiali con particolare attenzione ai giovani. Ha frequentato l’università alla Sapienza di Roma, anni in cui ha coltivato un profondo cammino spirituale. É sposata con Stefano da 29 anni e ha tre figli, Giovanni, Beatrice e Angela.
Laura, cosa significa per te missione? Essere missionaria?
Una delle mie passioni è viaggiare. Partire, prendere le distanze dal mio mondo, dalle mie certezze e provare quello strano smarrimento di entrare nell’ignoto, lasciandomi portare in nuovi territori, in nuove prospettive di paesaggi e di culture. Lungo il viaggio la mia curiosità cresce nel cercare di osservare i dettagli per cogliere non solo le meraviglie della natura ma soprattutto la bellezza degli uomini e delle donne che incontro. Ciò che rende originale ogni mio viaggio sono proprio gli incontri e provo un’immensa emozione nel camminare immersa tra infiniti lineamenti di volti, voci e situazioni di umanità, tanto che ogni volta mi risuona dentro il Salmo 8: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza … che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi»? Sì, direi che per me missione è il viaggio di conoscenza dell’umanità, conoscenza intesa come entrare in relazione, comprendere un nuovo vissuto, cogliere la grandezza e le fragilità umane, soprattutto le ingiustizie, e portarle a Dio nella preghiera.
In realtà questa mia passione esprime il bisogno continuo di conoscere meglio me stessa, di comprendere qual è il senso della mia vita in Cristo. Chi sono? Uscire da me stessa mi fa ritornare in me stessa. È un viaggio a doppio senso per cercare di cogliere l’essenza della vita, per cercare di capire cosa significhi per me essere figlia di Dio in questa porzione di eternità che mi è data da vivere e in questo contesto mondiale con tutte le sue problematiche. Per me, ora, essere missionaria è coltivare l’empatia verso ogni condizione umana e guardarla con i miei occhi di donna, moglie, madre e insegnante.
Come vivi il tuo essere missione a scuola come insegnante?
Ogni giorno incontro tanti ragazzi e ragazze della scuola media, tanti piccoli mondi di realtà sociali e di culture differenti. Sono Piccoli Principi che intrecciano casualmente la mia vita e costituiscono la mia preziosa quotidianità. Insieme iniziamo ogni anno un cammino che sempre introduco a loro con la metafora del Viaggio da affrontare insieme. Sarà un viaggio nella conoscenza del mondo e nella conoscenza reciproca. Ogni classe è il mio piccolo-grande mondo a portata di mano. Alla partenza ogni volta devo fare attenzione a mettere nella mia valigia poche cose, per non “asfissiare” i miei alunni con le sicurezze da adulta e cercare di entrare nel loro mondo per cogliere le loro potenzialità da valorizzare e le loro fragilità. Queste ultime sono come i vulcani sul pianeta del Piccolo Principe: possono travolgerli, abbattere la loro autostima, possono scatenare in loro reazioni distruttive. Il mio compito quotidiano è aiutarli a riconoscere le proprie paure, a capire come affrontare le situazioni difficili, a comprendere che non esistono formule magiche ma servono costanza, dedizione e tempo, cioè tanta pazienza. In classe al mattino si inizia con un energico saluto guardandoci negli occhi e ripetendo i nostri nomi – come a dire: non perdiamo di vista chi siamo – e, viaggiando insieme nella conoscenza, scopriamo le potenzialità delle materie letterarie: contemplare la bellezza del creato con il Cantico delle creature, scoprire le paure e le debolezze umane con l’Inferno dantesco, ma anche assaporare la forza vitale dell’Amicizia e dell’Amore cantato dai poeti nei secoli, riflettere sui diritti umani – altra dimensione dell’amore di Dio – quale consapevolezza maturata faticosamente dall’uomo nei secoli e non ancora compiuta.
Questo lavoro è impegnativo, sento l’enorme investimento di energie che devo impiegare ogni giorno, compito che inevitabilmente mi porta ad entrare in contatto anche con le famiglie dei miei alunni e l’intreccio delle relazioni si intensifica.
Qual è il tuo sogno di missione?
Essere missionaria per me è coltivare e rinnovare questa relazione sempre nuova, è attivare processi di conoscenza di sé stessi, è provare a scoprire il valore della vita che ci è stata donata, è sentirci parte dell’Umanità prendendoci cura di noi stessi ma calati nel contesto familiare, sociale e mondiale in cui viviamo.
Essere missionaria nella mia professione significa coltivare il sogno di “Non uno di meno”: sentire costantemente la preoccupazione di offrire a tutti gli alunni che incontro ciò di cui hanno bisogno per aiutarli a crescere nella consapevolezza di sé stessi. Naturalmente sperimento anche tanti miei limiti e difficoltà, e questo mi fa stare con i piedi per terra, mi fa ricordare che io sono semplicemente “una matita nelle mani di Dio”, come diceva Madre Teresa.
Quali espressioni useresti per definire il tuo senso di missione?
Essere missionaria per me è incrociare lo sguardo dei miei alunni, colleghi e genitori per ascoltare, capire, incoraggiare, spronare ad essere solidali nelle difficoltà. È aiutare i ragazzi ad accettare i propri limiti e a cogliere il bello della vita. È coltivare l’empatia con il prossimo cercando di superare il vizio del giudizio stereotipo e negativo, così abusato tra i giovani e tra gli adulti. Infine, per me vivere la missione è creare legami di prossimità, è prendersi cura, è allenarsi ad avere uno sguardo accogliente, benedicente e amorevole verso l’altro che è mistero divino: «Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi» (Il Piccolo Principe, cap.XXI).
A cura di Flavio Facchin omi