«Tutti fratelli», la lettera enciclica di papa Francesco, afferma che il nostro essere Chiesa ha senso solo se siamo comunità. Non può essere altrimenti, questo è il messaggio evangelico e la natura della Chiesa. E anche il nostro essere umanità ha senso solo se siamo famiglia. Noi non viviamo soli, non possiamo: siamo fatti per vivere in relazione. Per noi cristiani la fede non investe solo la nostra dimensione individuale, ma implica soprattutto impegni, progetti e azioni da portare avanti insieme. Anche la nostra preghiera sale al Cielo al plurale: nel «Padre Nostro» Gesù ci ha insegnato a pregare insieme, come famiglia. Anche a Maria ci rivolgiamo al plurale: «prega per noi peccatori».
Le giovani chiese nate nelle cosiddette «terre di missione» hanno qualcosa da dirci a riguardo, soprattutto alle nostre chiese dove spesso prevale una pietà personale e un individualismo sempre più marcato. Le chiese africane e latinoamericane hanno coscienza che possono essere Chiesa solo se sono comunità, solo se si sentono famiglia. Dio si è fatto uomo per essere fratello, per dirci che «dove due o tre sono riuniti nel suo nome, lì Egli è presente e lì è la Chiesa».
C’è una Chiesa da reinventare. C’è un’umanità da reinventare. Papa Francesco ci invita ad allargare gli orizzonti della fraternità a tutta l’umanità, ci invita a pensare a una nuova globalizzazione fondata sull’amore e sulla fraternità. Nei miei anni in Camerun, noi missionari ci siamo fatti prossimi a uomini e donne per la maggior parte appartenenti alle religioni tradizionali. Nei miei anni in Senegal, ci siamo fatti prossimi a uomini e donne cristiani, ma anche a molti mussulmani. Nella Chiesa c’è un esercito di uomini e di donne, consacrati e laici, che ogni giorno si donano al prossimo per far crescere un mondo migliore, e il loro sguardo d’amore è per tutti, senza distinzione di fede o di colore. L’amore e la fraternità non hanno confini perché il Cristo stesso si è fatto missione, si è fatto Prossimo ad ogni uomo che incontrava.
«Desidero tanto che, in questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità. Tra tutti: ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti, e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Com’è importante sognare insieme! […] Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme. Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli» (FT 8).
C’è bisogno di una Chiesa nella quale vivere e crescere insieme. C’è bisogno di un’umanità nella quale vivere e sognare insieme. C’è bisogno di sentirci una grande famiglia.
Nelle nostre società, purtroppo, constatiamo la presenza di muri invisibili per tenere lontani da noi i poveri, i fragili, gli indesiderati, tutto quel popolo che fa parte della cultura dello scarto. La pandemia aggrava questa situazione non permettendo di incontrarci, di ritrovarci, di dialogare… di vivere quanto ci fa umanità. Eppure c’è fame di relazioni, c’è fame di vita, c’è fame di comunicare ciò che siamo per dare valore al nostro essere e al nostro fare, per sentirci parte della grande comunità umana. Il pensiero dominante del nostro mondo indebolisce le dimensioni comunitarie dell’umanità. Basta vedere come i diritti umani non siano ancora sufficientemente universali; come si continui ad abitare la “casa comune” da consumisti sfrenati; come il progresso tecnologico ci massifichi e ci manipoli sempre più; come ci risulti difficile riconoscere che non possiamo salvarci da soli.
La consapevolezza di appartenere alla stessa umanità è debole e «il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi» (FT 30). Attualmente manca un forte progetto comunitario capace di unirci tutti. Tuttavia sentiamo il bisogno esistenziale di «camminare insieme e di remare insieme» (…).
Papa Francesco propone che questo progetto possa essere la fraternità e l’amicizia sociale: «Consegno questa Enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (FT 6). Inoltre, «dobbiamo essere coscienti che o ci salviamo tutti o nessuno si salva» (FT 32).
Al cuore di questa enciclica, dunque, c’è la convinzione cha la fraternità sia la nostra identità presente e la nostra vocazione futura. Siamo invitati a diventare fratelli e sorelle in Cristo in un modo che ora non riusciamo a immaginare: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2).
Da dove cominciare? «Non aspettatevi niente dall’alto… cominciate da voi stessi». Per questo papa Francesco suggerisce che «è possibile partire dal basso, da ciascuno, lottare per le cose più concrete e locali, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo» (FT 78).
Quindi, cominciamo da noi stessi!
Per plasmare una nuova umanità è necessario rimodellare il nostro modo di vivere le relazioni con gli altri, con il nostro prossimo. E per fare questo è necessario accogliere alcune sfide.
La prima sfida è di forgiare in noi uno sguardo nuovo di umanità. Uno sguardo capace di liberarci dalle paure e dal disagio della diversità. Uno sguardo che ci faccia accogliere “l’altro” come uomo e donna, con una propria storia che può umanizzare la mia storia personale e comunitaria. Quindi accogliere la diversità come ricchezza, a partire dalla differenza fra il maschile e il femminile. Immaginiamo, allora, quanta ricchezza e quanta bellezza si possa condividere fra culture diverse. Chiuderci di fronte al diverso e agli stranieri significa impoverirci e lasciarci morire.
La seconda sfida è di coltivare in noi uno sguardo d’amore nei confronti della propria identità e di quella altrui, atteggiamento che apre all’incontro e diventa ricchezza reciproca: «Non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico» (FT 143). Solo se il mio sguardo è trasfigurato posso capire l’umanità dell’altro, la sua bellezza e la sua ricchezza.
La terza sfida è di sviluppare in noi uno sguardo concreto, come fosse un contatto fisico: «la perdita di contatto con la realtà concreta ostacola lo sviluppo di relazioni interpersonali autentiche… C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana. I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un “noi”, ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo… la connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità» (FT 43).
La quarta sfida è di plasmare in noi uno sguardo fraterno per vedere l’altro come fratello e sorella. È quel sapersi mettere in dialogo che non è solo scambio di opinioni o di idee, ma un processo di empatia in cui si cerca di mettersi al posto dell’altro, di pensare cosa significhi essere nei panni dell’altra persona, cosa significhi che questa persona è stata modellata dalla sua cultura, provare le sue gioie e le sue sofferenze.
Esercitati ogni giorno, con pazienza e fiducia, questi sguardi formeranno in noi uno sguardo nuovo, e un nuovo modo di pensare, che gradualmente farà crollare le barriere che ci portiamo dentro. Per realizzare questa trasformazione, dobbiamo crederci seriamente. Un proverbio dice che «chi sogna da solo è un sognatore, se invece sogniamo insieme, il sogno comincia a diventare realtà».
La stessa Parola di Dio ci invita continuamente a farci prossimo, ad accoglierci, a parlarci, ad ascoltarci, a dialogare. Nel costruire relazioni autentiche, costruiremo l’essere famiglia, l’essere comunità, aprendo così spazi in cui ci si sente a casa gli uni con gli altri: la casa degli uomini.
Flavio Facchin omi