Da sempre persone e popoli sono migrati da una terra all’altra. I racconti biblici ci parlano di Abramo, che lasciò la sua terra per raggiungere la Terra Promessa. I grandi avvenimenti narrati nelle storie di Giuseppe e dei suoi fratelli, di Noemi, di Rut e di altri personaggi dei testi sacri si svolgono in terre straniere. Sempre in terra straniera emergono le figure di Daniele, di Ester, di Tobia. Il profeta Geremia annuncia la catastrofe dell’esilio. Il Dio della Bibbia è spesso un Dio dei migranti e un Dio di liberazione, come viene narrato nel libro dell’Esodo. Nel Salmo 137 si canta: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: “Cantateci i canti di Sion!”. Come cantare i canti del Signore in terra straniera?». Anche Gesù e la Santa Famiglia hanno vissuto l’esilio in Egitto. Gli esseri umani sono spesso dei migranti. «La storia della diaspora ebraica e della missione cristiana si è incrociata con l’espansione islamica, con le carovane, le vie della seta, la colonizzazione, con la scoperta di nuovi mondi. La storia della religione è anch’essa inserita nella storia della mobilità dell’essere umano» (Dominik Markl, “La Bibbia: una biblioteca scritta da migranti” in La Civiltà Cattolica, Quaderno 4018, pag. 325-332, Anno 2017, Volume IV, 18 novembre 2017). Siamo tutti dei migranti e, se vogliamo, siamo dei migranti verso l’eternità!
Ovunque nel mondo la gente si muove fra Paesi diversi. Si stima che all’interno del continente africano ci siano quasi trenta milioni di persone che si sono trasferite da un Paese all’altro dell’Africa. Negli ultimi dieci anni hanno lasciato il Venezuela quasi otto milioni di persone; i nostri missionari in Corea del Sud e in Tailandia sono testimoni di migliaia di persone che arrivano dai Paesi vicini per cercare lavoro (soprattutto dalle Filippine, dal Vietnam e dal Bangladesh). Nel Sahara Occidentale gli Oblati svolgono un importante lavoro con i migranti che vi transitano e che spesso vivono tragedie a noi sconosciute. Ogni giorno abbiamo notizie di profughi che fuggono da guerre e persecuzioni, dalla fame, da calamità naturali, da varie povertà alla ricerca di sicurezza e di una vita dignitosa. Migranti, sfollati, rifugiati, vittime della tratta: dei loro drammi, come di altri, pure noi Paesi dell’emisfero Nord siamo responsabili.
Da più di 30 anni i nostri politici parlano del fenomeno delle migrazioni in termini di “emergenza”, ma lo si può ancora chiamare “emergenza”? Constatiamo che sono milioni le persone che emigrano o fuggono, spesso a rischio della vita, alla ricerca di una terra sicura e di una vita migliore. Forse, più che di un’emergenza, si tratta di “segni dei tempi” in un’epoca che sta cambiando profondamente. Segni dei tempi che siamo chiamati a leggere e a interpretare e che ci interpellano a nuove responsabilità. Quanto successo negli ultimi anni nel Mediterraneo o nella vicina rotta balcanica è spesso dimenticato in fretta: il ricordo si perde nell’indifferenza. Sono significative le parole di Papa Francesco nella sua enciclica Fratelli Tutti: «Quando il prossimo è una persona migrante si aggiungono sfide complesse. Certo, l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità, così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio sviluppo integrale. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona» (Fratelli Tutti, 129).
Cosa di dire di noi Italiani all’estero? L’Italia è fra i Paesi che hanno avuto e hanno tuttora una forte dinamica migratoria. Si valuta che nei primi cento anni dall’unità d’Italia ci siano stati circa 25 milioni di Italiani che sono andati all’estero in cerca di lavoro; non tutti sono stati accolti bene e non tutti hanno fatto fortuna. I miei genitori emigrarono in Australia negli anni Cinquanta e lì siamo nati le mie sorelle e io. Dai dati Istat e della Fondazione Migrantes risulta che attualmente sono un po’ più di cinque milioni gli stranieri regolarmente residenti in Italia (8,8% della popolazione), mentre sono quasi sei milioni gli Italiani che risiedono all’estero e che sono iscritti all’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero (9,8% della popolazione). Anche negli anni più recenti decine di migliaia di Italiani, soprattutto giovani, si sono trasferiti all’estero. Si tratta di un fenomeno preoccupante perché indica che il nostro Paese non riesce ad offrire adeguate opportunità di lavoro ai nostri giovani. Regge ancora il discorso “aiutiamoli a casa loro”? Intanto, perché non ricordare che delle loro terre noi ci siamo serviti per avere a prezzi irrisori prodotti agricoli, minerari e risorse umane? Quanto abbiamo spogliato e impoverito tanti Paesi del cosiddetto Terzo Mondo? Perché non dire quanto la Chiesa ha attuato l’”aiutiamoli a casa loro” promuovendo innumerevoli progetti di sviluppo capaci di creare lavoro e autofinanziamento? Notizie che non fanno rumore!
Gli esodi dei migranti sono per noi una sfida missionaria. Nei volti di queste persone siamo chiamati a riconoscere il volto del Cristo straniero, profugo, povero che ci interpella «anche se i nostri occhi fanno fatica a riconoscerlo: coi vestiti rotti, con i piedi sporchi, col volto deformato, il corpo piagato, incapaci di parlare la nostra lingua» (Papa Francesco, 15 febbraio 2019). Noi, cosa possiamo fare? Poco, certo. Ritengo, però, sia importante almeno sentire nostri questi fratelli e sorelle e, se possiamo, fare qualcosa per loro concretamente. Papa Francesco, nel Messaggio per la Giornata Mondiale dei Migranti e dei Rifugiati del 2018, indica quattro verbi per la nostra azione missionaria con i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Le seguenti citazioni provengono da quel Messaggio di Papa Francesco del 14 gennaio 2018.
Accogliere «significa innanzitutto offrire a migranti e rifugiati possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale nei paesi di destinazione. In tal senso, è desiderabile un impegno concreto affinché sia incrementata e semplificata la concessione di visti umanitari e per il ricongiungimento familiare».
Proteggere «si declina in tutta una serie di azioni in difesa dei diritti e della dignità dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio».
Promuovere «vuol dire essenzialmente adoperarsi affinché tutti i migranti e i rifugiati così come le comunità che li accolgono siano messi in condizione di realizzarsi come persone in tutte le dimensioni che compongono l’umanità voluta dal Creatore».
Integrare che «si pone sul piano delle opportunità di arricchimento interculturale generate dalla presenza di migranti e rifugiati. L’integrazione non è «un’assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale. Il contatto con l’altro porta piuttosto a scoprirne il “segreto”, ad aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggior conoscenza reciproca. È un processo prolungato che mira a formare società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini».
A più riprese Papa Francesco ha ricordato che «il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19, 34). Quand’era vescovo in Argentina egli accolse Peruviani, Cileni, Boliviani, Paraguayani giunti a Buenos Aires in un periodo in cui il Paese versava in una grave crisi economica. Così si è espresso in occasione della visita a Verona, lo scorso mese di maggio: «Una Chiesa di figli che si riconoscono fratelli non arriva mai a considerare qualcuno soltanto come un peso, un problema, un costo, una preoccupazione o un rischio. L’altro è essenzialmente un dono, che rimane tale anche quando percorre strade diverse. La vicinanza all’altro supera ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione, come ci insegna il ‘buon samaritano’ della parabola evangelica» (Giacomo Galeazzi, “L’accoglienza secondo Francesco” in Interris 20 maggio 2024).
Per una realtà, quella dei migranti, per la quale non abbiamo soluzioni ma solo la nostra buona volontà, il nostro impegno di discepoli missionari ci chiede di conoscere per comprendere, farci prossimo per servire, condividere per promuovere e integrare.
Conoscere per comprendere. La conoscenza è un passo necessario per andare al di là dei numeri e delle paure: si tratta di persone! Conoscendo le loro vite potremo capire perché hanno lasciato la loro terra. Nessuno desidera lasciare il proprio Paese; ognuno ha diritto di restarvi se le condizioni di vita lo permettono. D’altra parte, ognuno ha diritto di cercare altrove lavoro per una vita migliore.
Farsi prossimo per servire. Amici musulmani in Senegal talvolta mi dicevano: noi siamo la religione della fede, voi dell’amore! Sembra scontato che noi siamo quelli della parabola del “Buon Samaritano”, ma spesso non è così. È vero: stiamo facendo tantissimo, e le Caritas parrocchiali e diocesane ne sono un esempio; ma quante paure e pregiudizi ci fanno mantenere «a distanza di sicurezza» e c’impediscono di avvicinarci ai migranti, dar loro un po’ del nostro tempo, fare qualcosa per loro!
Condividere per promuovere e integrare. Le risorse della terra dovrebbero essere a beneficio di tutti. Dobbiamo imparare a condividere senza lasciare nessuno da parte, condividere e collaborare per crescere insieme e per costruire “società altre”, che si stanno formando e nelle quali vivremo: multietniche, multiculturali, multicolori. In queste persone potremmo trovare delle ricchezze e loro potrebbero aprirci a nuovi orizzonti, farci crescere in umanità e, forse, anche nella fede: «Abbiamo bisogno di comunicare, di scoprire le ricchezze di ognuno, di valorizzare ciò che ci unisce e di guardare alle differenze come possibilità di crescita nel rispetto di tutti. È necessario un dialogo paziente e fiducioso, in modo che le persone, le famiglie e le comunità possano trasmettere i valori della propria cultura e accogliere il bene proveniente dalle esperienze altrui» (Fratelli Tutti, 134).
Come non ricordare che ieri i migranti in cerca di fortuna eravamo noi? Nonni, genitori, zii, parenti, paesani… Come non ricordare che ancora oggi i migranti siamo noi? I nostri giovani laureati e diplomati che lasciano il Paese che li ha formati, ma che non riesce a dare loro un lavoro, un futuro.
Concludo con alcuni interrogativi che vengono dalla mia terra, una cittadina veneta. Domande che una comunità cristiana si pone, domande rivolte a ciascuno di noi e che ci aprono a orizzonti missionari nella nostra terra. «Su 196 Stati ufficialmente riconosciuti nel mondo, nel comune di Asolo sono rappresentate ben 58 nazionalità!… Un vero microcosmo! Possiamo dire che Asolo è la “Città dai Cento orizzonti”? È evidente che, come cattolici, non siamo più maggioranza, ma possiamo essere lievito… quale nuovo stile di vita per le nostre Comunità cristiane?» (“Parrocchia di Sant’Apollinare – Casella d’Asolo, 100 anni camminando insieme”, a cura di Alessandro Dal Ben, Claudio Gusi, Giuseppe Pagotto, 2019, p. 108).
Flavio Facchin omi