La fraternità occupa un posto importante nella Bibbia e nella vita della Chiesa. In senso stretto la parola “fratelli” indica le persone nate dallo stesso grembo materno; tuttavia in ebraico e in altre culture questa parola designa anche i membri di una stessa famiglia in senso largo, oppure di una stessa tribù o di uno stesso popolo. Fraternità indica anche il legame spirituale fra più persone di una stessa fede. La fraternità fa parte del nostro vivere ecclesiale e sociale. Certo, non si cominciò nel migliore dei modi: Caino per gelosia uccise il fratello Abele; ci furono poi tante altre storie di fraternità tradita o vissuta male. I fratelli Abramo e Lot, visti i litigi dei loro mandriani per questioni di pascolo, si separarono per evitare liti fra loro due (Gen 13, 8); Giacobbe ed Esaù entrarono in competizione e si separarono; Lia e Rachele erano due sorelle rivali; Giuseppe fu venduto dai suoi fratelli (Gen 45, 4-5. 8); il profeta Geremia fu perseguitato dai suoi stessi fratelli (Ger 12, 6). E si potrebbe continuare. Però una delle preghiere più belle dei Salmi dice: «Ecco, come è bello e come è dolce che i fratelli vivano insieme… perché là il Signore manda la benedizione, la vita per sempre» (Salmo 133, 1. 3). Gesù evidenzia l’importanza delle relazioni tra fratelli, ma dichiara: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?… Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre» (Mc 3, 33-35). La proposta di relazioni da parte di Gesù, in cui i rapporti di sangue non sono necessariamente i più importanti, è una rivoluzione e attesta che si possono costruire relazioni importanti a partire da altri criteri: fare la volontà di Dio, vivere lo spirito del Vangelo, sentirsi parte di una stessa famiglia, che per noi può essere un gruppo, una parrocchia, la Chiesa. «Dove passa Gesù, fiorisce un sogno di maternità, paternità, sorellanza e fraternità nel quale ci invita a entrare. Un sogno che forse abbiamo spezzato mille volte, ma di cui non ci è concesso stancarci» (Cfr. Ermes Ronchi in https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2024/06/commenti-vangelo-9-giugno-2024). Nell’ultima cena di Gesù Pietro riceve il compito di confermare i fratelli nella fede (Lc 22, 31-32). I primi cristiani si ritenevano fratelli, tutto fra loro era in comune (At 4, 32) e Gesù stesso era «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 29). La fraternità si vive e si realizza in comunità: nell’accoglienza vicendevole (Rm 15, 7), nella condivisione (2 Cor 8, 9), nel rispetto reciproco (1 Cor 8, 13), nel superamento dei contrasti (Gal 5, 15). La fraternità è vissuta all’interno della comunità, ma è aperta a tutti ed è il segno distintivo della vita delle comunità cristiane, nonché una manifestazione dell’amore di Dio.
Nelle nostre società, fatte ormai di figli unici, di persone sole e spesso anziane, di gente che ha perso il senso dell’altro, che ha paura dello straniero e dei migranti, è più facile costruire muri dettati da cattiveria, odio, rancore, gelosia, invidia piuttosto che ponti di relazioni. In questa situazione la fraternità resta un sogno? Forse sì. Ma non c’è società e tantomeno fraternità fatta da singoli individui che vivono da soli. Per vivere in una società e per vivere la fraternità abbiamo bisogno dell’altro ed è necessario entrare in relazione con l’altro. Nonostante la crisi della società e della fraternità, noi osiamo sognare e sperare che si possa ancora costruire uno spirito di fraternità nella Chiesa e nel mondo. Crediamo alla «fraternità come fondamento e ragione per una necessaria fiducia nella convivenza; fraternità come solidarietà tra membri di una convivenza in vista del bene comune; fraternità come incessante ricostruzione di ponti, di riconciliazioni religiose, culturali ed etniche» … «La Chiesa è chiamata a essere “fraternità” perché è il suo nome proprio, la sua essenza: la Chiesa, o è una fraternità oppure non è Chiesa di Cristo!» (Enzo Bianchi https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2019/07/enzo-bianchi-la-fraternita-nuova.html/).
La Chiesa ha come vocazione la fraternità, è chiamata a essere fraternità, anche se qualche volta alberga in noi quel «Sono forse io il custode di mio fratello?». Ma come poter vivere il nostro essere discepoli missionari se non con gli altri e se non riconoscendoci bisognosi gli uni degli altri? Nel nostro impegno di missione riconosciamo che un frutto importante del Vangelo è la fraternità. Lo slogan della Rivoluzione Francese era composto dalla triade “libertà, uguaglianza e fraternità”. Per la libertà e l’uguaglianza si è combattuto e si continua a combattere; non mi risulta invece che si sia combattuto per la fraternità. Che non sia il caso di lottare per la fraternità? Anche nel semplice senso del “mi stai a cuore, mi prendo cura di te, sei nei miei pensieri”. Probabilmente dovremmo investire molto di più nelle relazioni umane e imparare a coltivarle.
Per noi, discepoli missionari, riconoscere Dio come Padre e come Madre ci impegna a riconoscere ogni uomo come un fratello e ogni donna come una sorella. «… la fraternità nasce non solo perché siamo figli dello stesso Padre, che potrebbe essere un padre indifferente, ma dal fatto che Dio Padre si è fatto nostro prossimo in Cristo Gesù» (Cfr. «La fraternità da Benedetto XVI a Francesco» di Claudio Gentili, 31 dicembre 2020, in https://www.benecomune.net/rivista/numeri/fraternita-fratellanza/la-fraternita-da-benedetto-xvi-a-francesco/). Si tratta di una fraternità fondata sulla prossimità di Cristo a ogni essere umano (di ogni razza, cultura, popolo e religione), per cui possiamo affermare che “ogni uomo è mio fratello, ogni donna è mia sorella”.
Costruire la fraternità cristiana è impegno di missione. Ci sono degli ambiti della nostra vita sociale nei quali è importante operare per la fraternità: la politica, la giustizia, l’economia, la solidarietà, il senso del bene comune, l’ecologia. Questi sono i luoghi nei quali si realizza o meno la fraternità quale frutto di un autentico interesse per l’uomo. Anche nel nostro quotidiano risulta importante operare per la fraternità e riproporre una presenza di Dio perché dove c’è Dio c’è interesse e passione per l’uomo. Diceva Papa Benedetto XVI: «L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto all’Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile – nell’ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell’ethos – salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri delle mode del momento. È la consapevolezza dell’Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi e insuccessi, nell’incessante perseguimento di retti ordinamenti per le cose umane. L’amore di Dio ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definitivo, ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti, anche se non si realizza immediatamente, anche se quello che riusciamo ad attuare, noi e le autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò a cui aneliamo» (Caritas in veritate, 78).
Operare per la fraternità è una sfida. Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium Papa Francesco parla di “Vangelo della fraternità” (Evangelii Gaudium, 179), domanda che non ci si lasci rubare l’amore fraterno (EG 101), chiede che non si perda l’ideale della fraternità (Evangelii Gaudium, 179). Cosa rispondiamo alla domanda «Dov’è tuo fratello?». Che sia vicino o lontano, sentiamo di esserne i custodi? O preferiamo navigare nell’indifferenza? Dopo il proclama «Dio è morto» del filosofo Nietzsche rischiamo di constatare che anche «il prossimo è morto». È interessante un’opera del sociologo Luigi Zoja nelle cui pagine introduttive afferma che «per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento, non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È morto anche il prossimo. Abbiamo perso anche la seconda parte del comandamento perché sappiamo sempre meno di cosa parla. “Il tuo prossimo” è una cosa molto semplice: la persona che vedi, senti, puoi toccare» (Luigi Zoja, La morte del prossimo, Einaudi, 2009). Non si può non riconoscere tanta verità in queste affermazioni. Facciamo davvero tanta fatica a riconoscere il prossimo che ci sta accanto come nostro prossimo e fratello e che magari si aspetta un gesto di prossimità o un segno di interessamento.
Noi continuiamo a credere e a testimoniare che Dio è presente nella storia e che ogni uomo merita la nostra attenzione: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede… chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1 Gv 4, 20-21). Questo ci porta a essere tessitori di fraternità. La missione della Chiesa percorre questa strada: cercare i fratelli! In fin dei conti è la missione stessa di Gesù: portarci a Dio, farci sentire una sola famiglia. Tessere relazioni di fraternità è impegnativo, ma è stupendo sentirci chiamati a coltivare il sogno della fraternità perché ci fa entrare in una dinamica di collaborazione con la missione di Dio, alimenta la profezia di un mondo nuovo, di relazioni nuove, di un modo vero e bello di vivere come fratelli. Coltivare il sogno di Dio è accettare di uscire da noi stessi per creare fraternità. Tessitori di fraternità: che vasto campo di missione da percorrere! Perché assumerci l’impegno di tessere fraternità ci fa operare nei cantieri dell’umanità, nei cantieri della missione, soprattutto nei cantieri dell’incontro fra di noi. Propongo alcune semplici tracce operative.
Tessere relazioni di fraternità è operare per una cultura dell’incontro. Questo termine, “cultura dell’incontro”, è caro a Papa Francesco, ne ha parlato spesso durante il suo pontificato. È un impegno che dobbiamo alimentare ogni giorno, è un invito rivolto a ogni donna e a ogni uomo. La fraternità si costruisce attraverso l’incontro con l’altro, fratello e sorella: va cercato, curato, protetto, coltivato.
La cultura dell’incontro è via per costruire la fraternità. «L’isolamento e la chiusura in sé stessi o nei propri interessi non sono mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento, ma è la vicinanza, è la cultura dell’incontro. L’isolamento, no; vicinanza, sì. Cultura dello scontro, no; cultura dell’incontro, sì» (Fratelli Tutti, 30). Ogni incontro crea fraternità. L’amore per Dio e per l’altro deve portarci a incontrare il volto dell’altro. Gesù incontrava chiunque, persone di ogni condizione sociale, culturale e religiosa. Papa Francesco invita sempre a «correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, con il suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa» (Evangelii Gaudium, 88). Ogni incontro può trasformarsi in relazione di fraternità.
La vita è tempo di incontro con l’altro. «La vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro» (Fratelli Tutti, 66). «Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza “se non attraverso un dono sincero di sé”. E ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri: “Non comunico effettivamente con me stesso se non nella misura in cui comunico con l’altro”» (Fratelli Tutti, 87).
Nell’incontro l’altro è dono per me. «L’arrivo di persone diverse, che provengono da un contesto vitale e culturale differente, si trasforma in un dono, perché “quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti”» (Fratelli Tutti, 133). Nell’incontro ogni uomo è un dono. Custodi di fratelli e sorelle, l’incontro ci porta a riconoscere i doni e le benedizioni di cui l’altro è portatore. Quanto abbiamo imparato nella nostra vita dagli altri? Siamo ciò che le nostre relazioni ci fanno essere, dalla famiglia alla scuola, dal lavoro alle amicizie. Gli altri siamo noi perché gli altri ci aiutano a costruirci.
Creare una nuova cultura dell’incontro è la nostra missione. «”La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita”. Tante volte ho invitato a far crescere una cultura dell’incontro, che vada oltre le dialettiche che mettono l’uno contro l’altro. È uno stile di vita che tende a formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature… Il poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze. Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo. Ciò implica includere le periferie» (Fratelli Tutti, 215).
Nessuno è escluso… tutti sono candidati alla fraternità. «Chiedo a Dio “di preparare i nostri cuori all’incontro con i fratelli al di là delle differenze di idee, lingua, cultura, religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della sua misericordia che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle controversie; la grazia di inviarci con umiltà e mitezza nei sentieri impegnativi ma fecondi della ricerca della pace”» (Fratelli Tutti, 254). Nessuno è escluso dalla fraternità. Una fraternità a misura del Vangelo non è una fraternità fine a sé stessa, ma finalizzata alla missione di rendere l’umanità più fraterna, più solidale, più unita. La relazione personale con Dio ci impegna nello stesso tempo nelle relazioni con gli altri (Evangelii Gaudium, 92); «ogni persona è degna della nostra dedizione… perché è opera di Dio… ciascuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione… se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita» (Evangelii Gaudium, 274). L’amore per Dio è strettamente unito alla passione per l’umanità.
La nostra missione e il nostro impegno saranno quelli di essere tessitori di fraternità, costruttori di incontro, favorendo una cultura dell’accoglienza, una cultura di prossimità, una cultura della cura reciproca, una cultura dell’incontro. Per far questo oseremo dialogare incessantemente: «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto» (Fratelli Tutti, 198).
Nella lingua greca le parole “fratello” e “sorella” significano etimologicamente “dallo stesso grembo” (a-delphos / a-delphë): fratelli e sorelle sono uniti dal fatto di provenire dallo stesso grembo materno. È bellissimo. Perché non pensare che tutti noi, tutta l’umanità fatta di donne e di uomini, proveniamo dal grembo materno di Dio? Questo ci rende tutti figli, tutti fratelli e sorelle, uniti nell’onore, nella dignità, nei diritti, pur mantenendo le nostre differenze culturali. Pensiamo a coloro la cui umanità e dignità sono ridotte a schiavitù, a merce umana. Pensiamo a coloro che sono considerati scarto della società. Pensiamo a chi è lasciato ai margini della vita. Cerchiamoli, sono nostri fratelli e sorelle. «Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (Fratelli Tutti, 8).
Flavio Facchin omi