Padre Maurizio Giorgianni, Oblato di Maria Immacolata di Messina, si trova in Corea del Sud da oltre trent’anni. Gli abbiamo chiesto di dirci qualcosa del suo lavoro con i migranti alla periferia di Seoul.
La cura pastorale per i migranti è iniziata nella diocesi di Suwon nel 1995. A quel tempo padre Giovanni Zevola, omi, iniziava a prendere i primi contatti con i lavoratori stranieri incontrandoli per strada soprattutto intorno alla stazione ferroviaria di Suwon. Sebbene all’inizio non avesse incontrato troppo entusiasmo tra i responsabili della diocesi, negli anni successivi la pastorale si è organizzata, anche perché l’afflusso dei migranti era in continuo aumento. Nel 2005 la diocesi di Suwon ha organizzato un ufficio per la pastorale dei migranti all’interno della diocesi inserendola nell’ufficio per la evangelizzazione della società. La cura dei migranti è organizzata con diversi centri sparsi in varie zone della diocesi con a capo un sacerdote (diocesano o religioso) e diversi volontari e impiegati.
Quasi tutte le comunità per i migranti nella diocesi di Suwon portano il nome di EMMAUS.
Il motivo di questo nome è legato all’esperienza dei discepoli di Emmaus. Essi erano persone in cammino, che passavano da un momento di grande speranza e attesa a un momento di delusione. Avevano perso tutte le speranze, avevano paura di quello che sarebbe successo loro in futuro. Gesù si è avvicinato a loro per accompagnarli nel cammino e per dare loro speranza, sicurezza, amore, cibo, forza, visione per il futuro… Gesù li ha aiutati a capire cosa stava succedendo. Ha aperto la loro mente e ponendo loro domande, ha restituito loro una speranza che è andata persa durante la loro esperienza attuale. Abbiamo visto nell’esperienza dei discepoli di Emmaus (Vangelo di Luca 24,13-35), la stessa esperienza e le stesse situazioni di tanti migranti. Ciò che Gesù ha fatto per i discepoli di Emmaus, i suoi atteggiamenti, il suo modo di stare con loro, sono le linee guida fondamentali per gli orientamenti e le ragioni della pastorale dei migranti. Le ultime statistiche dicono che in Corea vi sono più di un milione e mezzo di stranieri su una popolazione di circa 50 milioni. I migranti in Corea non arrivano come in Italia nei barconi, ma la migrazione è più regolarizzata e a tempo determinato. Un migrante in Corea prima o poi dovrà rientrare nella sua patria.
Sono arrivato in Corea nel 1993, 31 anni fa, e dal 2005, (sono 17 anni) mi prendo cura dei migranti di una zona della diocesi chiamata Gwangju. Più di diecimila migranti lavorano in quella zona. Sono migranti di diverse nazionalità prevalentemente dell’Asia (Cina, Vietnam, Indonesia, Est Timor, Filippine, Sri Lanka etc.). Essi lavorano in fabbriche di diverso tipo (alimentare, tessile, mobilifici, elettronica, riciclabile etc).
Vi sono migranti di due grandi categorie: quelli che arrivano in Corea con contratti e permessi regolari e altri detti «irregolari» che arrivano con visti turistici oppure hanno terminato i loro contratti regolari e continuano senza permessi lavorando in nero. La comunità di cui mi prendo cura è formata per la maggioranza da Filippini, ma vi è qualche presenza di altre nazioni. La cura pastorale ha un aspetto «sociale» in quanto cerco di aiutarli a trovare soluzioni dei loro problemi connessi con la loro situazione di lavoratori (sia regolari che irregolari). Vado a trovarli in fabbrica o faccio da intermediario quando chiedono il mio aiuto per problemi di salario o di comunicazione con il datore di lavoro (a causa della lingua coreana), li accompagno al Ministero del Lavoro. Molti si rivolgono a me quando hanno incidenti sul lavoro o problemi di salute, per trovare ospedali, per comunicare con i medici in lingua coreana e cercare finanziamenti per pagare le spese mediche (che sono molto più alte per gli irregolari privi di assicurazione medica). Li vado a trovare nei centri di detenzione quando vengono arrestati per lavoro irregolare e si cerca di collaborare con l’ufficio migrazione per finanziare i biglietti aerei per il rimpatrio. Con dei volontari si organizzano scuole domenicali di lingua e cultura coreana. Ho anche affittato un piccolo appartamento con due stanze adibito a dormitorio, quando hanno bisogno di un luogo dove stare provvisoriamente.
Un’altra categoria di migranti sono le famiglie multiculturali dove uno dei coniugi è straniero. Anche lì si cerca a volte di fare da intermediario per le incomprensioni delle differenze culturali e essere di aiuto per situazioni di difficoltà finanziaria.
L’altro aspetto della cura dei migranti è quello «spirituale» o propriamente pastorale. Particolarmente con i filippini, che sono di maggioranza cattolica, cerco di curare la comunità cristiana nella vita di fede e fraterna. Abbiamo la messa domenicale, la preparazione ai sacramenti le catechesi, le attività ricreative e sportive, i campeggi estivi, i ritiri per gruppi e gli incontri di preghiera. Pur non essendo parroco e non avendo una parrocchia, viene svolta una pastorale di tipo parrocchiale usando i locali di una parrocchia vicina e il centro di accoglienza che ho affittato.
Il tutto si sostiene finanziariamente attraverso la «provvidenza» di Dio che muove i cuori delle persone ad aiutare finanziariamente quando si presentano le circostanze. Per me è l’esperienza di miracoli continui. Quando mi si presentano le situazioni, non so quale sia la soluzione, ma so che il mio compito è quello di non lasciare sola la persona e cercare di fare quel che si può. A volte si fallisce dal punto di vista di soluzione del problema, ma non aver lasciato solo il migrante e averlo sostenuto è la «soluzione» più vera. Ci sono gioie, dolori, delusioni, a volte anche ferite che si ricevono, ma fa parte del vivere insieme accanto alle persone. Come ha fatto Gesù con i discepoli di Emmaus, bisogna mettersi accanto e camminare con loro. Un punto importante è accompagnare i migranti nella loro vita, una vita caratterizzata dal lavoro, ma non solo.