La lettera enciclica «Fratelli Tutti» di papa Francesco è un manifesto sociale che ci invita ad assumere responsabilità comunitarie e personali in vista di una fratellanza universale e di un’amicizia sociale. Vorrei riflettere su qualche pista, fra le molte proposte dal papa, in modo da fare nostro l’appello per realizzare una società fraterna. La prima pista può essere quella di saper vedere le persone accanto a noi con uno sguardo di benevolenza. Si tratta di saper vedere, perché spesso noi vediamo ma, allo stesso tempo, non vediamo, o vediamo solo ciò che vogliamo.
Oggi possiamo vedere molto di più che in passato, basta un computer o un’app sul cellulare per avere vedute del cielo, del mare e di ogni angolo della terra. Con il rischio però di non vedere il povero che rovista nei cassonetti dell’immondizia, o il vicino di casa, o i miei stessi familiari, che forse vedo solo per abitudine.
Vedo e allo stesso tempo non vedo. Spesso non vedo e non conosco il volto sofferente di tante persone che incrocio nella mia giornata. In città o nelle stazioni dei treni vedo giacigli di cartone e di stracci, ma non vedo il senzatetto emarginato e solo che vi abita. Vedo il migrante davanti al negozio, ma non vedo in lui il giovane che ha lasciato il suo paese e la sua famiglia in cerca di fortuna. Vedo al telegiornale le baracche sovraffollate di migranti, ma non vedo le loro vite di uomini disperati e di donne abusate.
Vedo e allo stesso tempo non vedo. Vedo beni di consumo fabbricati con materie prime che si trovano solo in paesi lontani, ma non vedo chi li estrae dal sottosuolo o li lavora in cambio di paghe irrisorie, poiché i prezzi delle merci sono decisi dalle multinazionali. Vedo il mio smartphone, ma non immagino i bambini o i ragazzi che, senza sicurezza e per pochi soldi, entrano in cunicoli sotterranei per estrarre il coltan con cui produrre la nostra indispensabile tecnologia. Al supermercato vedo i prodotti della terra, ma non vedo chi li lavora e li raccoglie: spesso sono stranieri malpagati che vivono in baracche senza acqua corrente e luce elettrica. Compro una maglietta, senza pensare alle ragazze che lavorano quattordici ore al giorno per cucirle. Faccio benzina senza sapere che proviene da zone di conflitti armati che generano disastri ambientali, fame, ingiustizie, migrazioni. E poi vedo il nostro mare, ma non vedo i corpi annegati di bambini, donne, uomini in fuga da paesi in guerra o alla ricerca di condizioni di vita migliori.
Vedo, vedo tante cose, ma forse dovrei cominciare a guardare meglio.
Se volessi vedere di più e capire, dovrei cambiare il mio modo di vivere, di agire, di informarmi, di spendere… Se potessi conoscere meglio la realtà, riconoscerei i soprusi e le ingiustizie, e forse non esprimerei giudizi troppo affrettati e sommari. Se guardassi con il cuore, metterei al centro dei miei sguardi i volti di queste persone senza tanti pregiudizi perché vedrei donne e uomini come me!
Per tessere relazioni più umane e per sognare una «fratellanza universale», papa Francesco ci propone di «recuperare la gentilezza» (Cfr. FT 222-224), perché le persone cordiali e benevoli sono «… stelle in mezzo all’oscurità» (FT 222). Chi ha la capacità di esercitare questa qualità ha uno sguardo magnanime verso gli altri, è capace di vedere i loro volti, la loro bellezza e anche i loro problemi, che talvolta sono urgenze se non addirittura angosce.
Uno sguardo di «gentilezza» è «attenzione a non ferire con le parole e i gesti… è tentativo di alleviare il peso degli altri». E ancora può «dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano», al posto di «parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano» (FT 223). La gentilezza presuppone stima e rispetto, che sono alla base dei nostri rapporti sociali. «La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza» (FT 224).
Gentilezza o, per usare un’altra parola, benevolenza sono parole che si pronunciano poche volte, ma che esprimono qualità importanti. Per sperare di vivere in una società dove la fratellanza universale possa diventare stile di vita, dovremmo avere sguardi e parole di benevolenza.
Vedo e non vedo, e spesso non voglio vedere, dicevamo. Talvolta ci risulta difficile persino apprezzare il bene presente in una persona vicina o in un amico quando sentimenti di invidia si impadroniscono di noi.
Se ci siamo abituati a sguardi distratti, superficiali e talvolta carichi di astio e di risentimento, come potremmo avere la capacità di cambiare e donare uno sguardo benevolo?
Come fare per conferire al volto di donne e di uomini la dignità e la considerazione di cui hanno diritto?
Dovremmo assumere lo stesso sguardo di Dio che ci vuole bene, nonostante le nostre fragilità umane. È lo sguardo che ospita il bene che c’è in una persona, ma anche le sue ferite.
Potremmo, inoltre, educarci alla benevolenza: è un bel compito che ci stimola a guardare gli altri con occhi limpidi per scoprire la bellezza che c’è in loro. Educarci alla benevolenza perché essa esprime una vita di relazioni e crea attorno a sé un clima positivo e talvolta di imitazione al bene, perché essere benevoli fa bene al mondo, fa bene a chi ci circonda, fa bene anche a noi. San Paolo pone la benevolenza fra i frutti dello Spirito di Dio: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé…» (Gal 5, 22-23). La benevolenza è un ingrediente essenziale dell’amore al prossimo e, come l’amore, si esprime in azioni, anche in quelle piccole e nascoste. Come da sempre siamo trattati con benevolenza da Dio, così dovremmo trattare gli altri allo stesso modo: «Siate benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri» (Ef 4, 32).
Offrire uno sguardo benevolo è porre attenzioni cariche di sollecitudini, è come vigilare sugli altri: nel volto dell’altro vedo il volto di un fratello.
La benevolenza è un desiderio sincero della felicità degli altri, è la disposizione che ci porta a essere sensibili ai bisogni degli altri, che non sono sempre e solo necessità materiali. Oserei dire che dovremmo «preoccuparci» dell’altro come mi preoccupo della mia salute o delle mie cose. Possiamo porci l’antica domanda: «Dov’è tuo fratello»? Cosa fai di tuo fratello?
La benevolenza è uno sguardo amichevole perché considera l’altro nella sua dimensione fraterna, lo considera alla pari, come persona.
La benevolenza è saper ascoltare, perché con difficoltà si trova chi doni un po’ di tempo per ascoltare, soprattutto chi vive nella solitudine.
La benevolenza è saper dire una parola di conforto o un semplice saluto, perché una parola può generare fiducia.
La benevolenza è anche un semplice sorriso, perché un gesto di simpatia genera comprensione.
Il modello della benevolenza è quello del Buon Samaritano: nell’uomo ferito lungo la strada, il Samaritano non vede un estraneo, ma vede in lui un uomo, un suo prossimo, un suo simile, uno come lui. Senza tardare, si ferma, si occupa di lui. Pone su di lui uno sguardo benevolo che si fa ascolto, gesti, parola. Semplicemente perché sente che l’altro è un uomo come lui, e non può vivere senza amarlo. Senza sguardi benevoli non potremmo conoscere il sapore della simpatia, la bellezza dell’alterità, la gioia dell’amicizia.
Concludiamo con uno scritto del beato Paolo Manna.
«La benevolenza fa bella e felice la vita, perché è l’esercizio pratico della carità fraterna di cui parla il Signore: ne è anzi la parte più delicata, ne è come l’effluvio e la sovrabbondanza, che si riversa nel nostro cuore, dal nostro tratto, dalle nostre parole sui fratelli e ci fa tutti più buoni. La vita è bella perché è tutta una manifestazione della benevolenza di Dio. Ora, non c’è nulla che tanto ci renda simili a Dio quanto l’esercizio di questa virtù. Solo Dio è ricco e generoso, solo Dio fa grazie, solo Dio fa felici; l’uomo benevolo, che emana la carità e la bontà di Gesù, che è generoso nello stimare, nell’incoraggiare, nel dimenticare, nel perdonare, nel dare, partecipa della prodigalità divina ed ha il potere di diffondere intorno a sé la felicità e l’amore. … Per noi missionari, l’essere benevoli, deve essere soprattutto una necessità, perché la benevolenza produce in noi e nei nostri confratelli quello stato di contentezza, che è condizione indispensabile per fare grandi cose per Dio» (padre Paolo Manna, “Virtù Apostoliche. Lettere ai missionari”, EMI, 1977).
Foto: Procura omi
Flavio Facchin omi