Alla fine del Concilio Vaticano II, papa Paolo VI affermò che «l’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio». E continuava dicendo che l’assemblea conciliare era stata «un amichevole invito all’umanità di oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio “dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere”» (Sant’Agostino). Allo stesso tempo, questa grande assise ecclesiale era stata l’occasione per rimettere l’uomo, «principio e ragione di ogni realtà», al centro di ogni valore e di ogni dignità «per edificare l’umana società… al fine d’instaurare la fraternità universale che corrisponde alla vocazione dell’uomo» (GS 3).
La figura del Buon Samaritano è centrale anche nell’enciclica «Fratelli Tutti» di papa Francesco: «Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il Buon Samaritano» (FT 67). Il protagonista della parabola ci manifesta la compassione e la tenerezza di Dio, ci dice che la fraternità è la migliore possibilità per crescere e vivere come persone e come società, ci aiuta a pensarci come fratelli nella stessa casa comune.
Nel racconto del Buon Samaritano del Vangelo di Luca, il viandante che scendeva da Gerusalemme a Gerico rappresenta, per noi oggi, l’umanità ferita e le «dense ombre» (Cfr. FT 54 e 72) che gravano su di essa, descritte da papa Francesco. Il viandante è la nostra umanità di uomini e donne che subiscono fame, povertà, oppressioni, invasioni, guerre, sequestri, violazioni dei diritti umani, soprusi, umiliazioni, tratta, schiavitù, razzismo, migrazioni, emarginazioni, ingiustizie, divisioni…
Il Buon Samaritano raffigura per noi il modello per sperare e operare in vista di «una fratellanza universale» e di «un’amicizia sociale», è l’esempio di fraternità e di responsabilità per la condivisione dei beni comuni, è la via per costruire relazioni sociali diverse: «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri; la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro» (FT 57). Il Buon Samaritano è colui che sa «vedere l’altro» nella necessità perché lo guarda con il cuore e quindi osa amare, è colui che «dona del suo tempo» per farsi prossimo, è colui che «si fa incontro» per prendersi cura del debole di diversa etnia o religione, è colui che si fa «dialogo e relazione» per includere altri nel suo compiere il bene.
Nei miei anni in Senegal, ho visto musulmani prendersi cura di cristiani e cristiani prendersi cura di musulmani. Non si tratta solo di uno slancio di generosità, non si tratta solo di buone azioni richieste ai fedeli di una religione. Questo invito è rivolto a tutti al di là dei propri paesi, delle proprie convinzioni o delle proprie fedi: viene richiesto al mondo politico e a quello dell’economia, ai paesi benestanti come a ciascuno di noi. La fraternità è il sogno di un amore che va al di là delle barriere e delle frontiere. Senza la fraternità, la libertà e l’uguaglianza faticano a rivelarsi nel loro splendore. La libertà e l’uguaglianza, valori importanti e per i quali molti ancora lottano, da sole e senza aperture all’altro non riescono a rendere l’uomo felice (Cfr FT 103-114).
La pagina evangelica del Buon Samaritano pone l’accento, fra le altre cose, a una nostra attitudine frequente: l’omissione, cioè la mancanza o il rifiuto di uno sguardo, di una parola, di un gesto, di un sostegno. Quante volte abbiamo trascurato una situazione di bisogno, non abbiamo voluto vedere un povero e il suo grido di aiuto e, forse, ci siamo voltati dall’altra parte per non vedere e non sentire, oppure abbiamo cambiato strada. Spesso siamo influenzati da una cultura di indifferenza e di esclusione, tante volte siamo incapaci di compassione e siamo lenti nel rispondere a una situazione di sofferenza. «Gesù non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicino a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi» (FT 80). Come per dirci: và, e anche tu fai lo stesso. È per noi importante «la convinzione sull’inalienabile dignità di ogni persona umana e le motivazioni per amare e accogliere tutti» (FT 86).
L’antico invito biblico di «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te» viene trasformato in senso propositivo: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12). Questo appello tende ad abbracciare tutti, perché Dio è Padre e Madre di ogni donna e di ogni uomo.
All’amore e alla misericordia non importa il popolo di appartenenza o la provenienza di un uomo ferito perché è l’«amore che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; è l’amore che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa […]. Amore che sa di compassione e di dignità» (FT 62).
Trasformare il nostro cuore e il nostro modo di vedere e di operare è la conversione a cui siamo chiamati. Il Samaritano non si chiede chi fosse l’uomo ferito, il suo aiuto è disinteressato, generoso, concreto. Il fratello da aiutare non possiamo definirlo o programmarlo, è semplicemente colui che incontri nelle tue giornate e che talvolta necessita di sostegno. In noi e nei nostri cuori c’è spazio per la prossimità verso uomini e donne nel bisogno? Chiunque essi siano, qualunque sia la loro origine, qualsiasi sia la loro necessità? Si tratta di fare nostri i verbi usati da Gesù: vedere, avere compassione, avvicinarsi, farsi prossimo, fasciare le ferite, versare l’olio e il vino, caricare sul proprio giumento, portare in una locanda, prendersi cura, estrarre due denari.
Il Samaritano non resta indifferente e impassibile di fronte alla necessità, si lascia commuovere e coinvolgere: ha visto un uomo nel bisogno, se lo è «preso a cuore», ha avuto cura di lui. «Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani e tiriamole a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo» (papa Francesco, Misericordiae Vultus 15).
Abbiamo bisogno di ricostruire la comunità sociale «a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune» (FT 67).
«Il racconto, diciamolo chiaramente, non fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si circoscrive alla funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità» (FT 68).
Il Buon Samaritano ci invita a implicarci e a comprometterci per costruire legami sociali, per impegnarci in opere di solidarietà e di prossimità, di sostegno e di fraternità. La parola chiave della parabola è il cuore dell’enciclica: è la parola «Amore», da declinare in ogni luogo e in ogni tempo, in tutte le situazioni e nelle diverse modalità di incontro con l’altro. E la parola «Amore» va unita ad un aggettivo che la rende decisamente concreta: «amore sociale» (Cfr. FT 183). L’amore sociale è «la forza capace di suscitare nuove vie per affrontare i problemi del mondo d’oggi e per rinnovare profondamente dall’interno strutture, organizzazioni sociali, ordinamenti giuridici» (FT 183). L’amore sociale ci permette di progredire verso una civiltà alla quale tutti ci possiamo sentire chiamati. La carità è un amore efficace che, con il suo dinamismo, è capace di creare strade nuove per raggiungere tutti.
Questo è possibile? Si può realizzare? Osiamo sperarlo e per questo ci impegniamo. «È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano» (FT 78).
Con la sua compassione e con i suoi gesti il Buon Samaritano trasforma il luogo dell’aggressione in un cantiere nel quale costruire una società in cui siamo capaci di «vedere l’altro», di «donargli del tempo», di «dialogare e metterci in relazione», di «farci incontro». La carità anima queste azioni; una carità che va al di là di una pura dimensione sociologica, che ha sede in un Dio da amare «sopra ogni cosa» e che si manifesta in un Prossimo da amare «come noi stessi».
Non importa se ai più questo progetto o questa proposta per lo sviluppo dell’umanità verso la fratellanza universale possa sembrare «un’utopia d’altri tempi … fantasie» perché «riconoscere ogni essere umano come fratello o sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie» (FT 180). Noi, «non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo» (FT 190): avere Dio nel cuore e farci prossimi all’umanità per creare legami di fraternità.
Foto: Al Centro Buon Samaritano OMI di Dakar
Flavio Facchin omi