Gesù chiamò un gruppo di uomini perché stessero con Lui per poi inviarli in tutto il mondo a portare la sua Parola. Innanzitutto, li chiamò per nome e, dopo averli chiamati, prima di inviarli, chiese ai Dodici di stare con Lui, li volle accanto a sé in una piena condivisione di vita, perché s’instaurasse una relazione profonda con Lui e fra di loro. Seguendolo, essi ascoltarono le sue parole e videro le sue opere. Così, quando furono inviati, poterono annunciare ciò che avevano vissuto con il Maestro e poi condurre a Lui altre persone. La vita missionaria di ogni battezzato è composta da una chiamata, dallo stare con Gesù, dall’essere inviati. L’esperienza dello stare con Gesù è fondamentale: siamo fatti per stare con il Signore perché è Lui, al centro del nostro cuore, che poi offriamo all’umanità.
Il racconto della casa di Betania, nel Vangelo di Luca, ci dà l’identità del discepolo. Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, sono due immagini complementari di vita missionaria: il servizio di Marta per l’ospite Gesù e l’ascolto di Maria delle parole del Signore. Marta svolge il ruolo importante dell’accoglienza, Maria sta ai piedi del Maestro in ascolto, sta alla sua scuola. L’attenzione per Gesù e l’ascolto della sua Parola ci mettono in relazione con il Maestro, da cui poi ripartire nella vita concreta, frenetica ed esigente. In Maria che si mette in ascolto di Gesù vediamo la beatitudine di «coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica».
Non si tratta di contrapporre l’azione di Marta all’ascolto di Maria, ma di coordinare i due atteggiamenti affinché i nostri cammini di missione prendano forma dallo stare con il Signore, per poi tradurre la Parola in vita. La nostra identità di discepoli missionari è quella dell’ascolto e del servizio, sapendo che tra le «molte cose da fare» e «l’unica cosa necessaria» c’è il bisogno di stare, cioè di essere in relazione con il Signore, lasciando che sia Lui a parlarci e a guidare la nostra vita. Stando ai piedi di Gesù, Maria diventa la discepola attenta alla sua voce, alla sua Parola.
La Chiesa è sempre «in uscita» per stare con ogni uomo e ogni donna, ma sicuramente c’è bisogno anche di fermarsi per stare con Lui, sorgente della nostra missionarietà presso la quale abbeverarsi per poi ripartire. «Da questa fonte si attinge l’acqua viva per andare avanti, per non lasciarsi rubare la gioia, la speranza, il coraggio di donarsi; per stare insieme, per gettare di nuovo le reti dopo delusioni e fallimenti; per continuare a lavorare con gioia anche se si fatica e si sente la stanchezza; per rimanere fedeli allo spirito originario della propria missione» (Papa Francesco).
In altre parole, sta a noi trovare il tempo necessario per stare con Dio, quel Dio che annunciamo e testimoniamo. Abbiamo bisogno di stare con Lui perché, nonostante la stanchezza, le nostre parole e la nostra vita siano sempre rinnovate. Siamo impegnati in tante cose: quante corse per la nostra famiglia, per il lavoro, per gli impegni parrocchiali, nel servizio alla Caritas o nella catechesi, o semplicemente per il tanto bene che realizziamo personalmente o con qualche gruppo. Facciamo tante cose. Le opere sono importanti, ma non dobbiamo ridurre la missione alle sole opere.
Penso ai miei anni in Africa, dove ho sempre affermato che ero lì per condividere la mia fede, per manifestare il Dio di Gesù Cristo, per camminare con altri cristiani e, perché no?, con tanti musulmani. Per quanto mi piacesse impegnarmi in opere concrete (e mi piaceva davvero tanto, sia per indole personale, sia perché era motivo per stare e lavorare con e per la gente), non sono partito in missione solo per scavare pozzi o costruire scuole, per dar luce a progetti agricoli o accompagnare tante adozioni scolastiche a distanza. Prima di tutto ero lì per il Vangelo, per donare il Signore, per costruire Chiesa con i battezzati locali, per testimoniare la nostra fede. Fra le tante corse per celebrazioni e catechesi, incontri di preparazione al battesimo o al matrimonio, per progetti e opere da realizzare, ad un certo punto si sentiva la necessità di fermarsi e di starsene in disparte con Lui. In quella sosta c’era tempo per la preghiera, per l’ascolto della Parola, per l’adorazione eucaristica, per gli incontri di fraternità e di condivisione nella nostra comunità missionaria o con i collaboratori più stretti, per i programmi da inventare, per le revisioni di vita e di lavoro. Ci si rendeva conto che la qualità della missione dipende dalla qualità dello stare con il Signore, per lasciarci guidare da Lui, per essere abitati dal Cristo e dal Vangelo che poi offriamo.
«I tempi ci impongono di riappropriarci urgentemente nella dimensione contemplativa dell’esistenza. Appartiene alla nostra identità di credenti… Il frastuono ci sommerge. Le cose ci travolgono… Dobbiamo riservare lunghi spazi al silenzio. Non rimarranno vuoti: Dio li riempirà della sua presenza… Proteggiamoci dalla tragica overdose di impegni. Concediamo al nostro spirito inquieto i pascoli della preghiera, della contemplazione, dell’abbandono in Dio. Torniamo alle sorgenti» (don Tonino Bello).
Flavio Facchin omi