Liana Pecoraro vive a Pescara, dove risiedono anche i suoi familiari più cari. Educata alle discipline giuridiche, lavora in un Ente Pubblico. Ha vissuto molti anni in Nord Europa, lavorando in varie organizzazioni internazionali. È da tempo molto vicina alla Famiglia Oblata, di cui ha conosciuto in via diretta l’opera missionaria in Africa. In particolare, ha condiviso l’impegno quotidiano, dando una mano alla preparazione delle aule dei più piccoli nelle Missioni di Farim e di Temento, sotto la guida di padre Nicola Ventriglia, in una esperienza educativa alla missione che le è rimasta nel cuore. È da tempo impegnata in attività, private o pubbliche, a supporto della tutela dell’infanzia. È anche molto vicina al Movimento dei Focolari, di cui condivide appieno il carisma dell’Unità in Gesù.
Liana, vorrei chiederti come senti il tuo «essere missione» nella tua vita e nel tuo lavoro.
Nella mia vita, missione è amare Gesù. Ogni testimonianza comincia necessariamente con l’amarlo profondamente. Il resto viene quasi da sé. Gesù diventa ogni palpito, ogni sguardo, ogni parola. Quando sento di vivere in lui e con lui, allora sento, e spero non sia un’illusione, che lo lascio trasparire nel mio vivere quotidiano. Ecco perché non mi preoccupo molto di «andare in missione». Ho capito che missione non è uscire di casa pensando «oggi devo fare questo per testimoniare», questa è una assurda pretesa, perché finisco per rincorrere i miei propositi, le mie intenzioni, quello che io ritengo sia giusto e necessario.
Penso a cosa è accaduto con il buon samaritano. Gli uomini che passavano accanto all’uomo ferito erano uomini di fede. Erano in viaggio, andavano verso un obiettivo che molto probabilmente si concretizzava in un’attività per il Signore da qualche parte: insegnare, essere presenti, intervenire. Così, preoccupati di realizzare il loro progetto, non sono riusciti a fermarsi per servire dove li chiamava il Signore.
Al grido di aiuto, e di amore, ha risposto uno che viaggiava con lo scopo di fare gli affari suoi. Non voglio dire che non mi ponga una progettualità. Cerco però di lasciare a Dio di potermi sorprendere e chiamarmi a dare testimonianza in situazioni che non ho messo in conto. Voglio abbandonarmi alla sua grazia, lì dove mi fa trovare e per come mi ha plasmata. Gli parlo continuamente, anche nel silenzio.
Soprattutto quando percepisco che le organizzazioni sociali in cui viviamo, anche in occidente, si muovono in una logica che il più delle volte non è evangelica. I rapporti umani sono più orientati ad una prevalenza individuale piuttosto che ad un sentire e un operare che si preoccupi di procedere insieme.
A volte, ho l’impressione che anche noi che siamo di Cristo ci lasciamo, più o meno consapevolmente, permeare da una logica di autoaffermazione a tutti i costi. Parlare costantemente con Gesù è l’unico modo per farlo trasparire a tutto lo spazio-tempo che mi dona, per dirla con Hawking. Spesso gli domando che diresti tu ora? Che faresti qui?
Qual è il tuo sogno di missione?
Andare insieme a Gesù, in ogni circostanza. Credo sia un’esperienza molto comune che i luoghi di lavoro siano piuttosto difficili dal punto di vista delle relazioni interpersonali. Anche per me è così. Però ho scoperto, nel tempo, che con Gesù mi difendo senza offendere, chiarisco la mia posizione senza ledere quella dell’altro. Qualche volta mi riesce di accettare di perdere, anche quando l’altro interpreta il tutto senza comprendere una resa di posizione che è fatta per incoraggiare l’armonia, il venirsi incontro, il camminare insieme e non perché sono «la scema del villaggio».
Ho imparato che testimoniare Gesù significa decentrarmi, e questo ovunque: in famiglia, con gli amici, nello svago, nell’impegno sociale, nel volontariato.
Devo accettare che qualcosa di me finisca da parte, anche semplicemente cambiare lo schema della giornata, posticipare un appuntamento, accettare che qualcosa debba essere riprogrammato.
Nelle piccole cose possono nascondersi grandi sacrifici. Perciò devo accettare di piangere per qualcun altro ogni tanto. E quando l’altro comprende, e accade più spesso di quanto spero, la grazia si rende presente e tutto si fa gioia, anche nella difficoltà.
Puoi dirci qualcosa di particolare della tua vita intesa come una vita missionaria?
Missione per me è anche letteralmente «dare» il mio tempo lì fuori, nelle vite degli altri, quelli che «non mi sono niente, non mi appartengono». Guardando indietro, vedo che fin da quando ero ragazzina ho sempre cercato, nelle mie giornate, spazi di servizio. Mi riempie di felicità scoprire che l’ho fatto anche quando non tutto andava bene per me, quando ero io a vivere nel disagio.
Sono molti anni che frequento, purtroppo meno di quanto vorrei, case-famiglia dove vengono accolti i bambini in situazioni di disagio familiare. Ho lavato visini, raccontato favole, pulito sederini, asciugato lacrime, accarezzato testoline, rincorso nel prato, retto sul triciclo, dato pappine…. per tanti piccoli angeli di cui non sempre ricordo il nome. Tutti, però, mi stanno dentro l’anima e mi insegnano costantemente che non c’è nessuno al mondo che non mi appartenga, nessuno per cui possa dire non mi riguarda. Ogni giorno mi affido a Gesù. So che mi condurrà in tutto.
Liana, quando ti si incontra hai generalmente un aspetto gioioso. Da dove ti viene?
Qualche tempo fa mi è capitato di pensare con sgomento che, per quanto io sappia, nessuno si è mai convertito a Gesù grazie a me. A volte mi sento così inutile per Dio. Soprattutto quando mi accorgo, e succede tutti i giorni, nessuno escluso, che ho sbagliato – che è un modo più soft per dire che ho peccato. Anche a questi pensieri, però, resto nella gioia perché rifletto sul fatto che, pur così imperfetta, così debole, così peccatrice, Gesù si mette fra le mie mani, si affida a me, vuole essere portato da me.
Ma non è una cosa bellissima?
Ecco, è questo Amore, folle e sublime, che voglio che passi attraverso me per inondare di felicità tutto intorno.
a cura di Flavio Facchin omi